La scelta di avere un figlio è il risultato di un progetto di vita della coppia che si aspetta di crescere un bambino sano e intelligente, autonomo, che assomigli ai genitori, che si inserisca nel contesto sociale, che sia autonomo nonché capace di costruire a sua volta una famiglia.
Queste aspettative sono infrante quando il figlio presenta delle disabilità: “La mia prima reazione a caldo è stata di profondo dolore nell’ipotizzare una vita per mio figlio priva di scelte e di autonomie”.
Diagnosi e reazioni.
La diagnosi di disabilità comporterebbe una situazione di perdita di una presenza normo-dotata e la necessità di elaborare un “lutto” del figlio fantasticato rispetto al figlio reale: “Ricordo che in quella stanzetta bianca e angusta scoppiai in lacrime, ho temuto che il cuore mi si spaccasse in mille pezzi”.
Nelle stanze di terapia, come ho potuto notare e studiare, le reazioni più comuni e naturali che si manifestano nei genitori a diagnosi ricevuta e durante l’iter terapeutico sono:
Negazione.
Porta i genitori a negare comportamenti e anomalie presenti nel bambino e alla non accettazione della diagnosi: “Il mio bimbo è furbo, capisce qualsiasi cosa, lo fa di proposito, non ha mai fatto così, forse è stressato ora, ma solo in questo momento si comporta così, a casa è tranquillo”;
Rifiuto.
Si manifesta nell’atto di rivolgersi a più specialisti per cercare una soluzione definitiva al problema o una diagnosi più “soft”;
Proiezione.
I propri impulsi e sentimenti inaccettabili sono attribuiti al mondo esterno e di conseguenza percepiti come appartenenti ad un’altra persona: “Quel medico non conosce mio figlio! Non può basarsi sui test, su quelle domande e su quel poco tempo di osservazione. La diagnosi non è esatta!”;
Idealizzazione.
Si proietta su una persona una “perfezione” che non c’è, si sovrastimano delle abilità/caratteristiche: “Mio figlio è intelligente, conosce un sacco di cose e ha una memoria infallibile, non ha bisogno di riabilitazione, col tempo parlerà, mi guarderà, si comporterà meglio, ognuno ha i suoi tempi!”.
Fasi per l’accettazione.
Alcuni autori parlano di fasi ben precise e necessarie per la riorganizzazione del sistema familiare:
Nella fase dello shock, i genitori provano incredulità rispetto a quanto è capitato loro, sconforto, senso di impotenza e rifiuto ad accettare la realtà, sentimenti molto forti che influenzano sia il rapporto con il figlio, definito disabile, sia le dinamiche dei rapporti familiari preesistenti.
Le madri, spesso, vivono un forte senso di colpa chiedendosi cosa avrebbero potuto fare di diverso e di meglio durante la gravidanza. La ricerca del colpevole è un’altra reazione che insorge all’interno del sistema familiare unito alla ricerca della causa, dell’origine precisa della disabilità.
Mentre la fase del lutto è caratterizzata da sentimenti di tristezza, sconforto e da una visione buia e negativa sul futuro del proprio figlio, della propria famiglia e di sé stessi.
I genitori possono presentare, quindi, le seguenti condizioni psicologiche:
– negazione o rifiuto del problema;
– depressione o rabbia;
– sottostima o sovrastima dei problemi del figlio.
Fase di rielaborazione del lutto e recupero di una visione più realistica e positiva del problema. Come detto in precedenza, quindi, il momento in cui viene identificato il problema e comunicato ai genitori è sempre quello più drammatico e deve essere effettuato nel modo più delicato possibile.
Cosa succede in terapia?
Da terapisti possiamo stilare dei progetti terapeutici avendo ben chiari i concetti di crisi, di disabilità che, a mio avviso, vanno visti come opportunità, considerando le famiglie dei sistemi in evoluzione. Questo ha una grande importanza per non correre il rischio di giudicare come permanente una reazione poco adattiva al momento della diagnosi o al contrario di considerare il superamento di tale impatto come unico ostacolo cui la famiglia deve far fronte.
Le stanze di terapia sono intrise di vissuti, fantasie, aspettative, emozioni e dubbi che investono tutti gli individui coinvolti, bambini, terapisti e famiglie.
Per aiutare i lettori a immaginare come si lavora nelle stanze di terapia, invito gli stessi a pensare al mito di Sisifo, come lui, terapisti e famiglie spingono insieme una roccia fino alla cima della montagna, a volte si ha la sensazione di essere arrivati in vetta, altre sembra che la roccia ci spinga alle pendici o ci schiacci. È un peso difficilissimo da sollevare che sembra rotolare di nuovo giù al punto di partenza, la roccia è intrisa delle difficoltà di mantenere nel tempo i progressi raggiunti che a volte sembrano perdersi, la paura che il peso ci schiacci è costante.
La cooperazione tra le diverse parti che caratterizzano l’intervento terapeutico/riabilitativo permette di far fronte ai vari aspetti del problema.
Nel nostro lavoro, considerare la famiglia come protagonista di un processo di adattamento, oltre che vittima di una situazione stressante, significa immetterla a pieno titolo nel processo terapeutico, sia per quanto riguarda i supporti psicologici e materiali di cui necessita, sia per quanto riguarda l’attivazione delle risorse di cui è portatrice.
Il lavoro con un professionista.
L’aiuto e il sostegno psicologico alla famiglia con un bambino disabile prende la forma di:
Interventi di sostegno alla famiglia.
Interventi di parent training.
Interventi di natura psicosociale.
Infine, è importante sottolineare come sia fondamentale lavorare sia su una rete di supporto intrafamiliare, che aiuti ad affrontare i compiti di cura del figlio disabile, che sulla rete sociale.
L’importanza del supporto sociale permette ai genitori di non sentirsi isolati rispetto alla comunità di appartenenza.
L’isolamento costituisce un forte rischio per le famiglie con figli disabili, per diversi motivi che spaziano dalla minor disponibilità di tempo, alla scarsa condivisione di problemi comuni alle altre famiglie, al timore del giudizio esterno.
Alice: “Per favore mi faccia passare!”.
Porta: “Oh mi dispiace, sei troppo grossa, proprio IMPASSABILE!”.
Alice: “Vuol dire IMPOSSIBILE?”.
Porta: “No, no, IMPASSABILE, NULLA È IMPOSSIBILE!”.
Autore:
Dott.ssa Carmela Petito, psicologa dell’età evolutiva e docente in diagnostica e riabilitazione delle sindromi autistiche e altri disturbi della comunicazione.